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Gli Avvoltoi

 

16 Giugno 2000, sbarco a Sofia in Bulgaria. Ad attendermi all’aeroporto l’amico di sempre Gian Paolo Caponera, che da qualche anno vive qui per lavoro.

Lo scopo di questo viaggio è di visitare insieme un parco naturalistico nel sud della Bulgaria, sui monti Rodopi, che ospita una delle ultime colonie europee di avvoltoi, dei grandi uccelli rapaci con quasi tre metri di apertura alare, ormai sempre più rari.

Mezza giornata di macchina e raggiungemmo finalmente Madjarovo, una ex città mineraria ormai abbandonata. Un luogo fantasma dove aleggiava un’atmosfera surreale ed inquietante.

Il nostro contatto in loco era Christo, un giovane naturalista che per conto di un’associazione ambientalista bulgara contribuiva alla protezione delle rare specie animali del parco. La nostra guida si occupava principalmente di rifornire con cascami di carne i carnai creati per il sostentamento alimentare della colonia di avvoltoi.

La mattina dopo, alle prime luci dell’alba, eravamo già in viaggio con Christo verso i depositi di scarti di macellazione per caricare i cascami necessari ad approvvigionare i carnai e subito dopo dirigevamo verso la località che ospitava i rapaci.

La colonia in piena fase riproduttiva, composta di una trentina di coppie di Avvoltoio Grifone (Gyps fulvus) e qualche coppia di Capovaccaio (Neophron percnopterus), si era stabilita sui contrafforti di un’alta parete di roccia a strapiombo, che si stagliava imponente sulla valle solcata del fiume Arda.

L’area del carnaio era stata predisposta sulla sommità di una collina pedemontana dinanzi ad una ex casamatta militare adattata per permettere di poter osservare dal suo interno senza arrecare disturbo.

Velocemente vennero sparsi i cascami di carne putrescente sul terreno e una volta nel rifugio la nostra guida ci diede appuntamento a dopo il tramonto per venirci a riprendere.

La giornata sembrò eterna, con il caldo che si fece sempre più asfissiante man mano che il sole di giugno scaldava implacabile la struttura in calcestruzzo.

L’odore ripugnante delle carcasse al sole saturò presto l’aria rendendola fetida, ma noi due stavamo immobili, nel silenzio più assoluto appostati dietro alle fotocamere, grondanti di sudore, ma nulla, proprio nulla, apparve per tutta la giornata.

Quando a sera all’arrivo di Christo uscimmo ormai esausti dal rifugio, egli ci indicò con un sorriso ironico il profilo degli avvoltoi sull’apice della montagna che ci osservavano, forse stavano aspettavano le nostre carcasse, e c’erano quasi riusciti.

Christo, conosciuti i fatti, decise di cambiare strategia. Il giorno dopo alle ore 3,00 del mattino eravamo già sul fuoristrada e per guadagnare del tempo prezioso, dopo una breve analisi del greto del torrente Arda, Christo decise di guadarlo. La corrente del fiume era consistente e la jeep procedeva a fatica sobbalzando sui grossi ciottoli scivolosi del letto del fiume con l’acqua che penetrava dalle portiere, ma riuscimmo a raggiungere lo stesso l’altra sponda.

Prima che albeggiasse eravamo già appostati nel rifugio in paziente attesa con le fotocamere già montate e le dita incrociate. L’alba arrivò, il sole si levò lento da dietro i rilievi orientali, ma non successe nulla.

Prevedendo un’altra giornata di agonia, nel silenzio più totale con Gian Paolo ci scambiammo uno sguardo di rassegnazione.

Ad un tratto un rumore sordo ed incombente, come di uno stormo di elicotteri che si stava avvicinando, ci scosse. Ci guardammo interdetti, ma prima di capire cosa stesse accadendo, decine di immensi avvoltoi si scagliarono d’improvviso sulle carcasse del carnaio a pochi metri da noi, scuotendo l’aria con violenti colpi delle possenti ali.

D’improvviso ci trovammo nel bel mezzo di una mischia furibonda, in cui una moltitudine di avvoltoi si azzuffavano tra di loro strepitanti, per contendersi il macabro banchetto.

Un fragore spaventoso, penne che volavano ovunque, brandelli di carne gettati in aria e i possenti rapaci che si affrontavano violentemente tra di loro, per impossessarsene.

Con stupore ci accorgemmo che nella rissa furiosa vi erano anche dei rarissimi individui di Avvoltoi Monaci (Aegypius monachus), probabilmente dei giovani erratici provenienti da una colonia della vicina Grecia.

Nel caos della frenesia alimentare i grandi uccelli rapaci avevano lacerato i sacchi ventrali già fermentati al sole dal giorno prima, che saturarono in breve l’aria, rendendola irrespirabile. L’emanazione di quel miasma fetido bruciava la gola, anche se tentavamo di proteggerci con gli indumenti per cercare di respirare.

Sconcertati in quello scompiglio continuavamo a scattare foto all’impazzata, gettando a terra come capitava le pellicole esaurite per caricarne di nuove.

Dopo venti minuti al cardiopalma, tutto cessò quasi d’improvviso. Gli avvoltoi ormai sazi stavano immobili con i gozzi gonfi di cibo, e a terra rimanevano solo alcune grandi ossa bianche, del resto non vi era più nulla, era tornato il silenzio.

Lentamente gli avvoltoi si involarono uno ad uno per andare a nutrire i loro pulcini al nido. Anche questo banchetto si era concluso, ancora una volta la colonia era in salvo, e per merito dell’uomo. Mi venne da chiedermi per quanto tempo ancora sarebbe stato così. Alla risposta a questa domanda allora, preferii non pensare, per non soffrire.

Dopo qualche tempo appresi con soddisfazione che una di quelle mie foto faceva bella presenza in un articolo pubblicato sulla rivista Airone, che denunciava la difficile situazione degli avvoltoi in Europa, e la necessità di un piano di intervento per garantire la loro sopravvivenza.

Sono passati diversi anni da allora, e so che la colonia di Avvoltoi dei monti Rodopi è ancora lì, arroccata su quei contrafforti selvaggi, ultimo baluardo contro la loro estinzione, e che in quel luogo altri uomini si stanno battendo ogni giorno, come allora, per la loro sopravvivenza. E oggi questo pensiero mi conforta.